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articolo importante: esiste una forte correlazione tra traumi subiti e i vari tipi di dipendenza

tratto da QI in Psicologia Hogrefe, n.8 maggio 2013

ll ruolo del trauma nell’addiction

Le dipendenze patologiche sono caratterizzate dall’uso distorto di una sostanza, di un oggetto o di un comportamento. Studiando i fenomeni di dipendenza da una prospettiva psicodinamica è possibile rintracciare aspetti comuni nelle sue diverse manifestazioni. Ciò che accomuna le differenti forme di dipendenza è la possibilità, infatti, che questa offre alle persone di modificare l’umore e le sensazioni e, pertanto, la dipendenza, prima ancora di essere una condizione neurobiologica o un problema sociale, è un fenomeno individuale che può presentarsi nel corso dello sviluppo psicologico come risposta a specifici fattori evolutivi (Caretti et al., 2005).

La letteratura scientifica internazionale mostra chiaramente le relazioni esistenti fra traumi vissuti nell’infanzia e disturbi psicopatologici in età adulta. Numerosi studi confermano che l’esposizione a un trauma (sia puntiforme sia cumulativo, van der Kolk, 2008) può facilitare l’insorgere di una psicopatologia (vedi ad esempio Caretti e Craparo 2008; Farina e Liotti 2011; Mosquera et al. 2011; Schimmenti e Bifulco 2008; van Dijke et al. 2011; Schore 2009); che spesso si manifesta anche attraverso forme di dipendenza.

Lo studio di Khoury e collaboratori (2010) in un campione di 587 soggetti esposti a traumi infantili e un alto livello di dipendenza da sostanze nell’arco di vita, ha evidenziato che la gravità dell’abuso di sostanze (soprattutto cocaina), era fortemente correlato con l’abuso fisico, sessuale ed emotivo durante l’infanzia; ancora, lo studio di Schäfer e collaboratori (2010) ha riscontrato in un campione di 489 partecipanti con storia di trauma evolutivo, oltre alla dipendenza da varie sostanze (quali eroina, cocaina e alcol), anche una forte tendenza alla dissociazione.

Ulteriormente, lo studio di Heffner e collaboratori (2011) ha evidenziato che l’esposizione precoce a un trauma psichico, provoca stati di paura e impotenza in un campione di 51 soggetti dipendenti da alcol e droga.

Questi dati suggeriscono, complessivamente, che l’esposizione a un trauma psichico durante l’infanzia, altera significativamente l’equilibrio psichico e le capacità di regolazione affettiva delle persone. Da questa prospettiva, i comportamenti additivi sembrano tutti rappresentare un tentativo disfunzionale di fronteggiare l’emergere incontrollato di vissuti traumatici infantili che il soggetto contrasta ritirandosi in stati mentali dissociati dal resto della coscienza ordinaria, per mezzo di un oggetto-droga.

Recentemente, diversi studiosi (Taylor, Bagby e Parker, 2000; Caretti, Ciulla, 2012) hanno rivolto la loro attenzione al deficit della regolazione degli affetti, considerata come uno dei fattori fondamentali che sembra accomunare il disturbo da uso di sostanze agli altri comportamenti di addiction quali l’alcolismo, il gioco di azzardo, i disturbi del comportamento alimentare, le dipendenze sessuali e quelle che vengono definite dipendenze affettive o tossicomanie oggettuali (ovvero la ricerca incessante di esperienze sentimentali e di stati di innamoramento).

John Bowlby (1979) evidenziò che le rappresentazioni mentali relative a sé e all’altro si costituiscono durante la relazione del neonato con i suoi caregiver e si organizzano in schemi cognitivo-affettivi che egli definì “modelli operativi interni” (MOI). Il processo di “sintonizzazione affettiva” (Stern, 1985) è il nodo cruciale nelle fasi di sviluppo di ogni relazione di attaccamento. La capacità di sintonizzarsi emotivamente, infatti, permette al bambino di comunicare i propri bisogni e sviluppare la capacità di distinguere il mondo interno dalla realtà esterna e, al caregiver, di rispondere empaticamente alle sue sollecitazioni. Il senso di sicurezza nel bambino sarà allora rafforzato e l’alternanza tra stati emotivi positivi (via via amplificati) e negativi (modulati) condurrà allo sviluppo completo del senso di continuità del Sé. Le capacità di regolazione delle emozioni e dei propri stati interiori, nasce e si sviluppa, quindi, all’interno di processi relazionali precoci.

Modelli operativi interni

È evidente, dunque, il rapporto tra la qualità delle relazioni primarie e lo sviluppo dei MOI nel bambino: i MOI definiscono la visione del mondo che è propria di un individuo e le modalità attraverso cui questi rappresenta i propri stati affettivi e dirige le proprie azioni. MOI di tipo insicuro (e, ancor di più, quelli caratterizzati da un’assenza di strategia o disorganizzazione) vanno dunque di pari passo con esperienze di accudimento negative o trascuranti, che impediscono lo sviluppo di strategie adeguate per l’autoregolazione degli stati affettivi.

Le esperienze traumatiche s’inseriscono all’interno di un sistema intersoggettivo primario, dove, in presenza di un trauma, viene compromessa l’organizzazione dei processi mentali di attenzione, percezione e memoria, ma anche la selezione degli affetti e delle risposte comportamentali.

Se il trauma avviene in età precoce, e quindi in un momento in cui il soggetto non ha ancora sviluppato la capacità di elaborare autonomamente le proprie esperienze, deve essere il caregiver ad aiutarlo in questa elaborazione, anche e prima di tutto regolandone gli stati affettivi che saranno, ovviamente, disregolati. Un fallimento in questo compito da parte del caregiver può compromettere lo sviluppo ottimale del bambino che si troverà costretto a impegnare le proprie energie psichiche nel mantenere dissociata l’esperienza traumatica. In questa situazione, il bambino non avrà più risorse sufficienti per raggiungere lo stato di quiete necessario ad acquisire la capacità di mentalizzare o di regolare autonomamente i propri stati affettivi. In ogni caso l’esito dell’esperienza traumatica può portare a diverse conseguenze; non sempre, infatti, un trauma non elaborato porta allo sviluppo di un Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS) come definito dal DSM-IV (APA, 2000). Come teorizzato da alcuni autori un trauma, specialmente se definibile come trauma complesso (Herman, 1992) può portare a quella che viene chiamata “dissociazione strutturale della personalità” (van der Hart et al., 2006), ma anche alla comparsa di sintomi dissociativi comuni a diversi disturbi (quelli che vengono definiti sintomi di “detachment”; Brown, 2006; Holmes et al., 2005) piuttosto che manifestazioni più pervasive di fenomeni dissociativi (i fenomeni cosiddetti di “compartimentalization”; Brown, 2006; Holmes et al., 2005).

Un ricorso patologico a meccanismi di tipo dissociativo (Bromberg, 2006), necessario per tenere separati dalla sfera cosciente i contenuti delle esperienze traumatiche che il soggetto non è in grado di elaborare, tende a impoverire la personalità e le risorse del soggetto stesso. Sembrerebbe, dunque, che la dissociazione patologica impedisca l’integrazione dei vissuti traumatici perché ostacola nel soggetto l’elaborazione in forma narrativa degli eventi dissociati, rendendo così impossibile l’articolazione di un racconto coerente con la propria storia di vita (Caretti et al., 2012).

L’emergere dei vissuti emotivi dolorosi, sconvolgenti e sopraffacenti nel soggetto dipendente, sia rispetto ai propri stati mentali, sia alle relazioni oggettuali, costringe lo stesso a ricorrere continuamente all’uso della dissociazione poiché non è in grado di contrastarli efficacemente, visto il deficit di natura evolutiva che ha impedito lo sviluppo della capacità di identificare e mentalizzare le emozioni.

Nel caso di un’esperienza traumatica precoce il bambino non sviluppa la capacità di leggere i propri stati mentali e viverli come rappresentazioni (Bonomi e Borgogno, 2001): idee e sentimenti vengono sperimentati seguendo la logica dell’equivalenza psichica per cui la descrizione dello stato interiore è dipendente dal contesto e conduce alla strutturazione di legami distorti sotto l’uso massiccio di meccanismi difensivi.

Il fenomeno della dipendenza da sostanze o da comportamenti specifici influenza e distorce a differenti livelli di gravità l’esperienza interiore di molte persone. Si tratta di un particolare coinvolgimento in un’abitudine ripetitiva e persistente, che non tiene conto delle conseguenze e che sviluppa una tolleranza. L’Internet addiction, le droghe, il cibo, il sesso o il gioco d’azzardo hanno come scopo principale il cambiamento della percezione di sé e dell’ambiente circostante modificando lo stato di coscienza ordinario il cui disagio e la cui sofferenza non possono essere regolati e mentalizzati altrimenti.

La presenza di un deficit della regolazione affettiva, comunque, porta inevitabilmente alla necessità, per il soggetto, di trovare un mezzo di regolazione esterno che gli permetta di tornare a quello stato di quiete che gli è impossibile raggiungere autonomamente; una strategia di automedicazione (Khantzian, 1985) che prevede l’utilizzo di un regolatore degli affetti esterno al soggetto, ad esempio una sostanza psicoattiva come l’alcool o le droghe (vedi ad esempio Robins, 1973, per l’utilizzo della droga come regolatore in soldati reduci del Vietnam), ma anche un comportamento come lo shopping compulsivo o il gioco d’azzardo (Caretti e Di Cesare, 2005), e nei confronti del quale, nei casi più gravi, l’individuo sviluppa una forma di dipendenza (che va ben oltre gli eventuali effetti puramente fisiologici, come nel caso della dipendenza da sostanze; vedi ad esempio Caretti et al., 2010). Il soggetto quindi, in presenza di uno stile di attaccamento insicuro o addirittura disorganizzato, non sviluppa sufficientemente le proprie capacità di autoregolazione e di mentalizzazione, restando dipendente da fonti esterne di regolazione e sviluppando strategie dissociative di evitamento fobico di determinati stimoli volte ad evitare l’attivazione di stati mentali che non sarebbe in grado di regolare (Mosquera et al., 2011). In questi casi, solitamente il soggetto ha sviluppato uno stile di attaccamento disorganizzato (Liotti, 2005): la sua coscienza è frammentata e non integrata, perché non è stato in grado di elaborare e integrare esperienze di attivazione affettiva molto intense nella sua coscienza ordinaria, essendo quindi costretto a separarle mediante meccanismi dissociativi; né i suoi caregiver sono stati in grado di portare a termine per lui queste operazioni. Uno stile disorganizzato può essere il frutto di esperienze traumatiche non elaborate e/o dell’interazione con un caregiver a sua volta disorganizzato (Hesse et al., 2003; Liotti, 2005; West et al., 2001), come d’altra parte ampliamente riportato in letteratura (Hesse et al., 2003; Lyons-Ruth e Jacobvitz, 1999; Solomon e George, 1999).

Questi fattori fanno della dipendenza una precisa costellazione di relazioni oggettuali, angosce e difese la cui dinamica si manifesta in un’attitudine obbligatoria che ha finalità e motivazioni non sempre chiare, né alla consapevolezza del paziente, né alla valutazione del clinico.

La dipendenza, pertanto, non consiste in una patologia che interviene casualmente nella vita delle persone, ma occorre una vulnerabilità di base che consenta una modalità del comportamento alla quale si può ricorrere sotto stress, quando il Sé risulta annientato da sensazioni ed emozioni non simbolizzabili. Il piacere che si ricava da una qualsiasi forma di dipendenza patologica deve intendersi come la ricerca di uno stato di trance autoindotto, un rifugio mentale il cui scopo è di costruirsi una realtà parallela psicosensoriale differente da quella sperimentata nella realtà ordinaria, di ritirarsi da ogni contatto e di dissociare le sensazioni, le emozioni, le immagini conflittuali non rappresentabili sul piano cosciente.